Discesa del Flumineddu
L’ambiente è da subito superbo e le pareti guidano dentro un binario sinuoso il letto asciutto del torrente. I blocchi del fondo sono lisci e immacolati dove l’acqua delle piene li smeriglia, così lucidati e splendenti da essere abbacinanti dove arriva il sole. I fianchi della gola sono invece di un grigio compatto dove la falesia è verticale, mostrando striature multicolori dove dominano gli strapiombi, con rosso vivo, rosa, arancio, nero profondo o argento perlaceo, che si contaminano a seconda di come le colate d’acqua hanno deciso di intendersela con i minerali della roccia.
Quando spaccature e gradoni rompono la continuità di questi muri maestosi, allora i lecci e le filliree si credono padroni di questo mondo e infilano le loro radici a cercare i rimasugli di chissà quale nutrimento, aggiungendo così il verde alla tavolozza dei colori. Infine una striscia azzurra segue il disegno dei bordi alti sopra le nostre teste.
Camminiamo cercando i passaggi migliori tra blocchi e tronchi incastrati, aggirando, scavalcando, strisciando e, per quanto ce lo permettono i nostri compagni aggrappati alle spalle, saltando di masso in masso. Il caldo della giornata diminuisce allo stringersi delle pareti ma i vestiti sono già inzuppati di sudore. Dopo oltre un’ora arriviamo al primo incassamento con calata di questa discesa del Flumineddu.
Ore 12,45.
Per effettuare le calate abbiamo deciso per una corda da 30 metri di 8,7mm e altrettanti metri di una sagola da 4mm. Inoltre in fondo allo zaino c’è la mezza corda da 50 metri per l’arrampicata che in caso di necessità può essere usata come corda d’emergenza.
Abbiamo ponderato molto la lunghezza della corda per il canyon e la sua sezione, arrivando a decidere in base a una serie di fattori, troppi e troppo complicati da descrivere. In sintesi è stata la possibilità di fare tutte le calate con una sola corda in doppia, poiché dovrebbero essere tutte meno di 15 metri. In caso di sorprese e salti più alti, abbiamo la possibilità di calarsi in singola usando la sagola per il recupero.
Detta sagola, ovviamente più leggera di una seconda corda, dà grandi vantaggi per ingombro e leggerezza, sia nel trasporto nello zaino, che nei traghettamenti col canotto nei quali ci sarà da trainare pochi etti di cordino invece che chili di corda inzuppata.
Ovviamente ci sono anche dei contro, come per esempio la difficoltà di gestire l’intrico delle anse, tipico delle sezioni ridotte
Il punto di non ritorno
Nella discesa di ogni canyon, la prima calata è sempre un varco. Una volta scesi da lì e tirata via la corda non c’è più modo di tornare indietro, non dalla gola, almeno. Talvolta sono presenti vie di fuga se le pareti permettono di arrampicarsi, ma spesso lunghe sezioni costringono solo a progredire, senza lascire spazio ad altre decisioni. In questi tratti, talvolta lunghi ore o giorni, ciò che proprio non si vuole è innanzitutto un temporale. Ma un qualsiasi altro imprevisto potrebbe risultare estremamente complicato da affrontare. Rispetto alla salita di una parete, qui le possibilità di azione e scelta sono molto più limitate. Infine il segnale telefonico è sempre rigorosamente assente.
Una sequenza di armi presente sulla destra, per calarsi lungo la parte più liscia e logica del salto, è inservibile. Una piena ha schiacciato e sradicato gli ancoraggi necessari per allestire un corrimano e calarsi all’armo finale, la cui verticale correrebbe poi lungo una linea pulita e diretta fino al fondo. Su quella sequenza, a causa di un frazionamento, la doppia da 30m sarebbe tranquillamente sufficiente.
Un armo in ottime condizioni è sulla sinistra, alto sopra il blocco che, incastrato, è l’ultimo baluardo a dominare un salto di una ventina di metri. La linea di questa calata però appare subito meno diretta e più problematica rispetto a quella sull’altro fianco. Interrotta e disturbata da massi incastrati, corre dentro un camino a “V” dove prevediamo che non sarà facile lavorare sui piedi durante la discesa. In aggiunta, proprio per questa sua morfologia, non è possibile vedere se la doppia da 30m arriva in fondo. Nell’incertezza montiamo la sagola e scenderemo in singola.
L’altro dilemma riguarda gli zaini. Bagagli così pesanti non possono essere tenuti sulle spalle durante calate su corda, per cui in genere si appendono al discensore e ci si calano con noi, tenendoseli più o meno tra le gambe. Qui anche questa soluzione appare poco adatta per cui decidiamo che saranno calati dal secondo una volta che il primo sia arrivato in fondo.
Le decisioni sia della sagola che della modalità di calata degli zaini si riveleranno sbagliate e con l’aggiunta di un po’ di fatalità, questa discesa ci farà perdere un’ora, una borraccia e mezzo litro d’acqua. E almeno il doppio di sudore.
Scendo per primo senza problemi, a parte non poter usare bene i piedi a causa della complicata conformazione. I massi incastrati nella verticale frazionano la discesa in quattro parti, con altrettante possibilità di incastrare gli zaini e le corde al momento del recupero. Arrivato in fondo, Ludovico cala il mio bagaglio che arriva senza grossi problemi.
Il suo si incastra nel secondo masso, fino a capovolgersi malamente. Una borraccia esce e sbattendo a terra si spacca sul fondo. La raccolgo subito e la rigiro per fermare la perdita ma un buon mezzo litro se ne è andato.
Scende Ludovico e cominciamo a recuperare la sagola. Poche decine di centimetri e le corde sono inchiodate. Sei, sette, otto tentativi ma niente da fare. Non riusciamo a vedere dove è il problema a causa del salto molto frazionato ma siamo certi che è il moschettone di giunzione che rimane nel primo blocco. Non rimane che tornare su.
Preparo due machard e una staffa e comincio il dannato e faticoso lavoro di risalita.
I machard sono nodi autobloccanti. Avvolgendo un cordino di sezione inferiore alla corda attorno a questa, lo si può far scorrere in alto per poi appendersi e ripetere. Con buona tecnica si risale 30cm alla volta, un lavoraccio.
Arrivo ad un terrazzino piuttosto comodo da cui riesco a vedere che i nostri sospetti erano esatti. Il primo blocco proprio sotto la sosta di calata crea una stretta gola dove il moschettone di giunzione non passa. Con poca convinzione cerco di far uscire il cordino da quella strettoia. Lavoro sfiduciato, perché la poca inerzia della sagola temo non ce la faccia a trasmettere le mie onde lassù, otto o dieci metri sopra la mia testa.
E invece al secondo o terzo tentativo inaspettatamente il nodo salta via dallo stretto incastro. Risceso alla base è ora un attimo recuperare tutto.
Un’ora e mezzo di lavoro. Ore 14,15.
Appare l’acqua
Proseguiamo la discesa del Flumineddu per un breve tratto a piedi e poi una calata di pochi metri porta sul bordo di un tratto allagato con alcuni sassi in mezzo. Siamo a 4 ore da quando abbiamo iniziato a camminare, ore 14,45.
Nella discesa del 2006, ci fermammo qui per pernottare. Partimmo più tardi e tutti i tempi di calata con un gruppo numeroso si dilatano enormemente. Arrivammo qui intorno alle 18 e quello che appariva davanti non ci dava garanzie di poter arrivare ad un luogo da bivacco prima del buio. Decidemmo dunque di fermarci in questo riparo sottoroccia, al sicuro da eventuali cadute di sassi ma in uno spazio ristrettissimo e con un pavimento di rocce inospitali. Solo i due ragazzi riuscirono a dormire in una posizione davvero sdraiata. Noi adulti ci adattammo alla meglio, tamponando le asperità sotto i materassini con i pochi abiti. Rivedendo ora questa piccola grotta, fu veramente una nottata eroica.
Tiriamo fuori il canotto e lo gonfiamo. Il nostro amico sarà indispensabile da qui in avanti.
L’acqua, benchè non presente in maniera costante, ci farà compagnia per lunghi tratti. Il calcare succhia il liquido ogni volta che può. Lo ingoia nelle sue fauci enormi, grotte e diaclasi, che entrano per centinaia di metri nel ventre della Terra ma lo assorbe anche da tutti i suoi minuscoli pori e dalle piccole fessure appena visibili. E quella, erodendo e corrodendo crea cunicoli e impregna gli inferi con l’acqua trafugata al terreno. Ma dove il calcare è più compatto o dove quei percorsi sotterrarnei sono già pieni, l’acqua riappare in superfice, correndo talvolta trasparente, altrove ristagnando scura.
Ludovico attraversa per primo lo scomodo laghetto, una pozza d’acqua nera e ferma con 3 massi in mezzo. Non sono abbastanza vicini per poter passare saltando dall’uno all’altro, né sufficientemente larghi per poter passare agevolmente col canotto. Nel suo traghettamento deve alleggerire con le braccia il suo peso nelle strettoie tra i massi, così da non lacerare il fondo del canotto.
Quando arriva sull’altra sponda con la corda e la sagola allestiamo una teleferica per scarrucolare gli zaini. Questi infatti non possono essere tirati col canotto a causa dei massi affioranti.
La manovra richiede tempo perché se io ho una clessidra perfetta in cui armare, ancorchè scomoda per lavorarci, Ludovico ha solo un sasso incastrato molto basso. Facciamo dunque un paranco per mettere la corda molto tirata ed evitare che il peso degli zaini faccia loro lambire l’acqua durante la teleferica.
Per agganciare gli zaini mi devo mettere in piedi su un blocco in posizione un po’ strapiombante e mentre con una mano mi tengo alla buona clessidra dove ho fatto l’armo, con l’altro braccio devo sollevare i bagagli e moschettonarli alla corda.
Una teleferica laboriosa
Con lo zaino di Ludovico riesco alla meno peggio: la teleferica è all’altezza della mia testa e con un po’ di slancio e fortuna ce la faccio ad attaccarlo. Quando porto il mio bagaglio in cima a quel masso però mi è subito chiaro che non ce la farò mai a tirarlo fin dove necessario con un solo braccio, oltretutto dalla posizione scomodissima in cui mi trovo. I tre o quattro tentativi che faccio, sono dovuti ma frustranti e azzerano la forza del mio scarso bicipite.
“Mi devo riposare e comunque così non ce la faccio”
“Torno indietro e ti aiuto”
“Troppo laborioso e poi qui in due non ci si lavora. Faccio in un altro modo”
Recupero le forze due minuti poi salgo di nuovo sul masso, con la sinistra mi tengo alla clessidra e mi sporgo per tirare su il fardello. Cerco di risparmiare energie e a braccio teso lo appoggio subito nel pochissimo spazio sul masso. Mi accuccio poi più che posso sempre attaccato alla clessidra e sollevando un pò lo zaino ci infilo sotto il ginocchio destro. Spinto anche dalla coscia, lo porto bene all’altezza voluta, il braccio destro non fa più tanta fatica. Ma ora, in strapiombo e su un piede solo, è il braccio sinistro che, attaccato alla clessidra, comincia subito a lavorare di brutto. Raduno le forze e al secondo tentativo lo zaino è moschettonato.
Ma il lavoro non è finito. Se il primo bagaglio era stato scarrucolato senza grosse difficoltà, il secondo a causa del maggior peso si intraversa e si impiglia a metà percorso, dove la corda lambisce un angolo di roccia, rimanendo a lungo bloccato.
Dopo inutili manovre estenuanti solo il definitivo intervento di Ludovico che raggiunge il punto critico e lo sblocca, ci permette di far arrivare il bagaglio sull’altra sponda.
Tocca infine a me e con cautela mi imbarco. Tutte le entrate e le uscite dal canotto richiedono attenzione ed equilibrio quando si effetuano da soli. Se non trattenuto dal compagno infatti, il piccolo natante sembra si diverta ad andarsene da sotto il sedere proprio nei momenti più delicati dei trasbordi. Ogni volta il primo ha l’aiuto dell’altro per imbarcarsi ma deve poi tribolare per uscire da solo e viceversa per il secondo.
Siamo al di là asciutti alle 16.
Seguono ora due altri laghi, questa volta lineari e semplici, prima di una breve calata dentro ad un incastro di massi e tronchi che terminiamo alle 17.
Ci aspetta ora uno dei tratti più impegnativi di tutta la traversata: un lungo toboga scivoloso interrotto a metà da un blocco incastrato, porta su una verticale da 8 metri che cade nel cosidetto Lago Nero.
Un toboga è un piano inclinato dell’alveo, uno scivolo. In questo caso la parte centrale, con scarso scorrimento è estremamente scivolosa per la formazione di alghe. Bisogna dunque stare con i piedi larghi e camminare come in un mezzo tubo.
Arrivare fino al masso è facile ma poi le cose cambiano. Negli spazi ristretti e con l’attenzione di non far scivolare gli zaini nel rivolo, dobbiamo arrampicarci sul blocco e scendere dall’altro lato passando anche gli zaini. Al di là del grande masso il toboga prosegue qualche metro fino ad interrompersi bruscamente con un affaccio minaccioso e infido sul sottostante lago. La conformazione e l’aspetto del luogo incutono timore ed inducono ad usare cautela in ogni movimento. Le pareti strapiombanti rendono il luogo scuro e il cambio di direzione del gola, con una piega nettissima a sinistra, dà l’impressione di essere arrivati ad un vicolo cieco.